Le cose si spiegano meglio se proviamo a leggere in un altro modo la storia, a considerare Ercole, almeno quello della decima impresa, se non pure quello dell’undicesima, la conquista dei pomi delle Esperidi, come un eroe più antico, assimilato per l’importanza che aveva e per la profondità della simbologia all’eroe classico. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, si capisce perché l’Ercole classico dopo avere soppiantato l’eroe più antico, ne abbia assorbito la centralità. L’eroe originale doveva avere le caratteristiche dell’eponimo di genti nomadi, dedite alla pastorizia, che s’identificano con un personaggio forte e coraggioso come deve essere un pastore che migrando incontra di tutto e deve affrontare ogni situazione con energia e decisione. Questo eroe vagabondo ha un qualche legame con il mondo dell’aldilà e così continua quelle tradizioni preistoriche che sono alla base della cultura del megalitico, il culto delle pietre testimoniato dai numerosi dolmen e menhir diffusi per tutta l’Europa e che secondo alcuni studiosi ha origine proprio nella penisola iberica. Ecco cosa dice a proposito il professor D. J. Wölfel ([8] pag. 200):”..ci fu una religione dei megalitici, quantunque con i pochi frammenti dell’archeologia si possa dimostrare poco più che l’unitarietà delle esigenze religiose diffuse su tutta l’Europa occidentale e, mediante l’architettura e le offerte sepolcrali, nonostante alcune deviazioni, l’unitarietà delle soluzioni con cui quelle esigenze vennero soddisfatte...il fatto che i morti vengono immessi nell’orbita dei vivi e che mantengono la loro importanza per i vivi, e che questi cercano di catturarsene la benevolenza per mezzo di sacrifici e di cerimonie di culto...”.
Il culto dei morti che soggiace ai dolmen e ai menhir, è rimasto anonimo, dacché l’aspetto essenziale della cultura megalitica, per rimanere solo nella penisola iberica, è che “…non si trova alcuna immagine di culto…non menzionano nessuna figura di divinità indigena…Ciò si accorda con la notizia dataci da Strabone…che i Celtiberi veneravano «un dio senza nome»…” [8] pag. 180.
Se però si associa l’eroe vagabondo, le cui avventure i Greci assorbirono nel ciclo di Ercole, alla cultura megalitica, allora ci deve essere una traccia nella toponomastica dei luoghi in cui abbondano le costruzioni di pietra che ci possa restituire almeno il nome di tale personaggio. Ora una delle aree dove si trova gran copia di dolmen e menhir è il dipartimento di Eure in Normandia, il cui capoluogo è Évreux . Questa cittadina è rimasta famosa perché Giulio Cesare nel “De bello gallico” ne descrive gli abitanti di allora come appartenenti ad una delle tribù degli Aulerci, quella degli Eburovici, da cui essa ha derivato il proprio nome. Ora è abbastanza evidente che Eburovici in latino vuol dire quelli relativi al vicus (10) di Ebur, dando per inteso che tale riferimento è chiaro e significativo. Che cosa poteva dare all’area il nome Ebur se non l’abbondanza di monumenti megalitici che vi si trovano, e chi poteva essere venerato fra quelle pietre se non l’eponimo della cultura che esse rappresentavano (11) ?
In Grecia appena arrivati in Epiro sbarcando ad Igoumenitsa, percorrendo un centinaio di chilometri verso Prèveza, si arriva ad una collina vicino al villaggio di Messopòtamo in cima alla quale c’è il Nekromanteion, un santuario composto da una serie di gallerie e di camere ipogee, esistente fin da epoca micenea. Qui venne Ulisse ad interrogare l’ombra di Tiresia, per conoscere le vicissitudini che lo attendevano lungo il viaggio di ritorno ad Itaca.
Ulisse fece sgozzare alcune pecore e versò il sangue in una fossa perché l’ombra dell’indovino potesse berne e quindi vaticinare. Questo rituale doveva essere antichissimo, i greci e forse prima di loro popolazioni pregreche vennero ad interrogare i morti in questa località, che allora si chiamava ’Eφύρα che come detto sopra è l’equivalente greco di Ebur. La vallata sottostante si chiama Acherousia, era una zona paludosa, oggi bonificata, da cui promanavano vapori infernali, oltre i quali si apre il corso del fiume Acheronte. Acque gelidissime sono quelle del fiume, che scaturisce da grotte inaccessibili o sgorga da anfratti fra le rocce, ma ancora oggi i greci vengono qui a fare il bagno in queste acque potabili e a riposare sotto i salici e i pioppi. Oggi il turista fatica ad immaginare qualcosa d’infernale in questo piccolo paradiso dell’Epiro, niente può giustificare proprio lì l’ingresso al mondo dei morti e guardandosi attorno le impressioni sono tutt’altro che tenebrose.
(10) la parola vicus come il greco (w)oikos, il russo –vic che ormai è divenuto il suffisso del patronimico, oltre ai corrispondenti iranico e indiano, derivano da un antichissimo uso indo-europeo per la classificazione dell’appartenenza sociale (cfr. [9] pag. 227).
(11) Il nome Ebur latinizzato è importante e diffuso nel mondo celtico, in Irlanda al tempo di Santa Brigida troviamo un vescovo Eburius e ancora il vescovo Eborius di Eburacum (York) partecipante al concilio di Arles del 314. (da Acta Sanctorum Hiberniae, Edimburgo 1888, cit. in Cambridge, “Storia del mondo medievale, vol II, pag.315 , alla stessa pagina anche il secondo vescovo).
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