Il Bugatti nacque a Roma alla fine del Settecento (per l'esattezza nel 1779) e iniziò giovanissimo la sua lunga "carriera" che terminò nel 1864, alla veneranda età di 85 anni, ritirandosi in pensione e vivendo con i 30 scudi mensili concessi da Pio IX per ricompensarlo dei suoi servizi. Leggendo le sue "Memorie di un carnefice", è possibile conoscere tutti i dettagli dei suoi 516 "servizi" resi a Sua Santità suppliziando, mazzolando, giustiziando, squartando.
Il Bugatti descrive con accuratezza i processi, le vittime, gli assassini, i moventi, i delitti. Si sofferma sui particolari cruenti dell'esecuzione delle condanne eseguite in qualsiasi parte dello Stato Pontificio dove il pontefice lo inviava. La sua prima "prova di giustiziere" si svolse a Foligno impiccando e squartando un certo Nicola Gentilucci. Sono racconti raccapriccianti che possiamo apprendere consultando anche gli archivi storici delle località in cui lui operò. Spesso all'efferatezza di tali condanne capitali si trovarono ad assistere per caso anche stranieri, per lo più scrittori e artisti, in viaggio per l'Italia secondo la moda del gran tour. Ne restavano raccapricciati e scossi; due nomi illustri tra i molti: Charles Dikens che ne dà testimonianza nel suo "Lettera dall'Italia" e Lord Byron nella missiva che scrive all'amico John Murray. Anche l'italianissimo Massimo d'Azeglio ne "I miei ricordi" ci dà un quadro significativo dell' orrore della Roma di quel tempo.
Quanto mai sconcertante era poi il rituale seguito puntualmente e ossessivamente da Mastro Titta. Prima di accingersi a eseguire il suo compito di giustiziere, si confessava scrupolosamente, si comunicava e quindi si vestiva avviluppandosi nel suo caratteristico mantello rosso. Abitava, sembra, sulla riva destra del biondo Tevere; la zona non era adatta alla Roma bene dell'epoca ed era riservata a gente di dubbia moralità, a plebaglia, a individui come Mastro Titta.
Era vietato loro passare il ponte (c'era perfino il proverbio "Boia nun pazza ponte" ovvero ciascuno stia al suo posto). A Mastro Titta ciò era permesso perché, dovendo giustiziare, doveva passare per il ponte Sant'Angelo onde giungere a Piazza del Popolo, a Campo dei Fiori, a Piazza del Velabro ove c'era il patibolo. Vedendolo passare sul ponte col suo mantello rosso era facile intuire che in quel giorno un altro poveraccio veniva spedito all'altro mondo. Spesso lasciava Roma per svolgere il suo lavoro anche nelle province più o meno lontane.
A Tivoli il luogo ideale per eseguire le condanne a morte era Piazza Domenico Tani (detta nel Medioevo "Platea Maior Episcopatus" vale a dire "Piazza maggiore dell'episcopato"). Mastro Titta la frequentò spesso. I documenti datano al 13 gennaio 1841 le ultime esecuzioni capitali a Tivoli. È interessante vedere al civico n° 41 (situato sul lato destro della piazza dando le spalle alla cattedrale tiburtina) il piccolo carcere dove erano custoditi i condannati a morte prima di salire sul patibolo. Si tratta in realtà di una cinquecentesca piccola caserma-armeria sul cui architrave si può ancora leggere "Arma de militi bus" mentre su uno stipite inferiormente è riportato "Arma de militibus de Tibure"; fungeva da carcere provvisorio solo nei momenti in cui occorreva tenere in sicurezza i prigionieri prima di farli salire sul patibolo.
Mastro Titta operò anche a Subiaco, come è attestato nelle sue "Memorie di un carnefice". Il Titta ricorda che impiccò il 4 luglio del 1801 un venditore ambulante, tal Domenico Treca. Costui aveva una bella moglie, Felicita, di cui il boia descrive con accuratezza le forme. Ella viveva presso una parente per non stare sola quando il geloso marito era impegnato nelle fiere. Ma le male lingue spettegolavano per il fatto che Felicita frequentasse troppo la chiesa per la messa, la confessione, la comunione. Il curato andava persino a trovarla in casa e la parente le teneva il gioco. Domenico si tormentò quando le calunnie giunsero al suo orecchio e volle trovare le prove del tradimento di Felicita. Finse di dover partire per una settimana; invece si nascose in casa, attese l'arrivo di notte del curato, sentì che la moglie, la parente e il prete gozzovigliavano; percepì che i due amanti si erano ritirati in camera per l'amplesso. A questo punto uscì dal nascondiglio, pugnalò la parente, poi il prete, quindi la moglie. Come un ebete uscì in strada, insanguinato, col pugnale in mano. Fu arrestato subito e solo allora si rese conto di ciò che aveva fatto. Non voleva più vivere ma dovette aspettare la fine del processo per essere impiccato.