Fidanzamento e sposalizio nella Tivoli di un tempo

Quando le “reazze” erano “da marito” ( in un’età compresa tra i diciotto ed i venti anni), le vecchie , mentre sedevano a “scartoccia’ “ o a “stregà la melega” cercavano di fare incontrare i ragazzi da “mojjera” con le ragazze.
Queste uscivano con le “conghe” (conche) di rame per recarsi ad attingere l’acqua alla fontana pubblica non essendo le abitazioni servite da un impianto idrico. Qui in genere le attendevano i giovanotti per avvicinarle; oltre che alla fontana pubblica un altro luogo d’incontro era in genere la chiesa: lui attendeva all’uscita lei dopo la messa. Il corteggiamento di un tempo prevedeva serenate notturne sotto la finestra dell’innamorata, mazzetti di violette e di ciclamini. Ma non tutti gli amori venivano corrisposti e per questo occorreva fare attenzione alle fatture d’amore fatte con sale, capelli della persona che si voleva fare innamorare, mestruo e vino rosso.
Il fidanzamento ufficiale si faceva “se li genituri voleanu”; in questo caso avveniva lo scambio dei doni: fedina e fazzoletto per la testa erano i pegni d’amore che lui dava a lei, che ricambiava con una cravatta o un fazzoletto da collo.

Veduta di Tivoli
Veduta di Tivoli

La frequentazione degli innamorati avveniva secondo la consuetudine immortalata dal Pinelli in una sua stampa: lei sull’uscio della porta di casa e lui che le parla standole vicino ma sulla strada.
In occasione del matrimonio gli sposi invitavano i parenti e gli amici “allu renvriscu” (il rinfresco) tramite i “bijjetti” (i biglietti), mentre le pubblicazioni venivano affisse al Comune ed in chiesa.

Ci si sposava o in ottobre o in novembre perché il lavoro agricolo (svolto allora quasi da tutti) subiva una pausa. Al rinfresco era obbligatorio fare quattro giri o “passate” di ciambelle, quattro di “ciammellitti”, poi si davano i confetti. Al venerdì, che precedeva il matrimonio, avveniva il banchetto per i parenti.
Ma vediamo in particolare come erano vestiti gli sposi il giorno delle nozze. Per tutto il XIX sec. un abito blu era indossato da lui mentre lei indossava per l’occasione tra l’altro una gonna a pieghe dietro e liscia sul davanti ed un grembiule di tulle molto caratteristici.
I parenti decoravano con coperte colorate e fiocchi l’arco della porta di casa della sposa e ponevano immediatamente davanti l’ingresso un nastro bianco che la nubenda avrebbe dovuto tagliare per uscire da casa prima di andare in chiesa. Lo sposo si recava in casa di lei; qui aveva luogo un piccolo rinfresco poi si formava il corteo nuziale che a piedi raggiungeva la chiesa. In testa era la sposa con il padre, poi lo sposo con la sorella più grande, i parenti di lei, poi quelli di lui.


Casa torre in Via Selci

Finita la cerimonia gli sposi si recavano a casa della suocera che benediva la nuora, la baciava dandole il “benvenuto”, le dava l’oro (allora i monili erano importantissimi), quindi i due colombi venivano sommersi da una pioggia di riso e di confetti.
Al Trecento risale l’usanza di fare le “scampanate” (con barattoli ecc.); tale usanza fu sempre contrastata dalla Chiesa essendo un retaggio pagano.
Il pranzo nuziale avveniva a casa e solo con i “parendi stritti” (i parenti stretti).

Esso era costituito da otto portate o nove: antipasto con prosciutto e salumi, stracciatella, bollito con verdure, fettuccine, carne “nnumidu” (in umido, cioè con il sugo), cosci di pecora “’mbilottati”( farciti), “abbacchiu e ‘nzalata”(agnello macellato ancora lattante e insalata), supplì, ricotta, fegato e frutti locali; il tutto era innaffiato da vino rosso. Poi si passava ai confetti; ogni invitato ne riceveva tre. Erano gli sposi a passarli con un cucchiaio d’argento.

Chiudeva il pranzo il tradizionale scherzo fatto alla sposa (piuttosto pesante): su un piatto coperto venivano posti i testicoli ed una tibia di un montone (simboleggiante l’organo maschile); lei scoperchiandolo doveva dire, ridendo, la solita frase :” E’ musciu…”.

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