Dopo la sottomissione della donna all'uomo nella Roma arcaica e repubblicana, fu Augusto ad emancipare la donna stabilendo che potesse chiedere il divorzio, che potesse ereditare e gestire le sue sostanze, che potesse riavere indietro la dote se divorziata e quindi potesse risposarsi. La finalità di Augusto era incrementare le nascite favorendo nuove unioni e sciogliendo quelle sterili; la sua politica di espansione territoriale richiedeva infatti molti soldati. Il nuovo matrimonio è detto sine manu (senza sottomissione della donna all’uomo) ed era molto simile al nostro, sua derivazione.
Era preceduto da un fidanzamento: un banchetto durante il quale i due giovani esprimevano l’impegno di volersi unire alla presenza dei genitori, amici e parenti. Il fidanzato consegnava alla ragazza dei regali ed un anello (anularius), un cerchietto d’oro, che veniva indossato all’anulare della mano sinistra poiché si credeva che dal dito partisse un nervo molto sottile che arrivava fino al cuore.
La sera precedente al matrimonio i capelli della sposa venivano raccolti in una reticella rossa; aiutata dalla pronuba (una specie di madrina che come requisito per tale incarico doveva avere avuto un solo marito) la sposa indossava il suo vestito nuziale che consisteva in una tunica tecta (cioè senza orli) stretta alla vita da una cintura di lana annodata con un doppio nodo (di Ercole). Sulle spalle poneva poi la palla (un mantello) color zafferano come i sandali. Una grossa collana di metallo le ornava il collo. In testa, oltre a sei cercini posticci, portava il flammeum, un velo color arancione che in parte le copriva il viso. Una coroncina di verbena o di mirto con fiori di arancio completava l’acconciatura.
All’arrivo del promesso sposo veniva offerto un sacrificio agli dei; a seconda delle risorse economiche degli sposi l’animale sacrificato poteva essere più o meno grande. L’auspex esaminava le viscere della vittima sacrificale e dava responsi sul favore o meno divino. Se gli dei erano favorevoli gli sposi si scambiavano, davanti a dieci testimoni, questa formula “ubi tu Gaius ego Gaia”(dove tu sei e ti chiami Gaio, io sono e mi chiamo Gaia).
La cerimonia avveniva o nell’atrio della casa della sposa o nel santuario più vicino. I presenti poi all’unisono gridavano “feliciter” (con voi sia la felicità). Si formava poi il corteo per portare la sposa dalla sua casa a quella maritale; suonatori di flauto e tedofori aprivano il corteo. Tre amici dello sposo venivano prescelti per ricoprire un incarico importante: due facevano finta di rapire la sposa (ricordo del ratto delle Sabine) l’altro portava la torcia nuziale. durante il percorso venivano gettate noci con il guscio; dal rumore che, cadendo, facevano si presagiva se il matrimonio sarebbe stato sterile o prolifero. Il compito dei due amici era quello di sollevare la sposa per non farla inciampare sulla soglia della nuova casa (segno di malaugurio). La pronuba ed altre due amiche della sposa entravano con lei; portavano conocchia e fuso. Il marito offriva acqua e fuoco (simbolo della casa). Poi la pronuba conduceva la sposa verso il letto nuziale e, quando lo sposo si apprestava a sciogliere il nodo erculeo della cintura nuziale, tutti si ritiravano. All’indomani la sposa riceveva regali dal marito e si banchettava.
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