Le Sibille di Casa Romei a Ferrara commissionate da Giovanni Romei (1402-1483), con una datazione degli affreschi intorno alla metà del Quattrocento, furono effigiate forse in onore della sposa promessa Polissena d'Este, che sposò in seconde nozze poco prima del 15 luglio 1468; è presente infatti nel ciclo l'immagine dei garofani rossi, quale simbolo dell'amore, divino e terreno, ed, in particolare, anche del fidanzamento. Le pitture potrebbero essere state eseguite perciò al fine di onorare la futura sposa in vista del secondo matrimonio del Romei, celebrato molto più tardi dalla sua contrattazione. Anche per casa Romei doveroso è l'accenno al cardinale di Ferrara Ippolito II d'Este, in quanto la casa sarà poi utilizzata dal cardinale per il suo soggiorno a Ferrara, dopo averla ristrutturata profondamente dopo la metà del XVI secolo, aggiungendo le decorazioni a grottesca.
Lo stemma di Ippolito, l'aquila bianca con i pomi delle Esperidi, è ben conservato in casa Romei, e genera profonda emozione, proprio perché raffigurato in un ambiente domestico e certamente non augusto come la villa tiburtina. Accenno solo che, uscendo dall'area estense, ma riferendoci sempre allo stesso periodo, altre Sibille si trovavano nel Palazzo Altan a S. Vito al Tagliamento, su committenza del vescovo Antonio Altan (circa 1439/40-1444), amico del cardinale Orsini e nel palazzo vescovile di Albenga per il vescovo Napoleone Fieschi (circa 1463). Una doverosa osservazione parte da un aspetto prettamente filologico, evidenziando mai abbastanza l'importanza del testo di Lattanzio, con la citazione di Varrone, brano fondamentale per tutte le ricerche sulla tematica delle Sibille.
Le Divinae Institutiones furono il primo libro a caratteri mobili stampato in Italia, il primo fuori la Germania, stampato nella vicina città di Subiaco, da C. Sweynheym e A. Pannartz nel lontano anno 1465 (è datato 29 ottobre).
Proprio il libro di Lattanzio, che riconosceva alle rivelazioni delle Sibille un'autorità pari a quelle dei profeti biblici, a seguito della stampa a Subiaco ebbe un successo considerevole che gli valse sei riedizioni tra il 1465 e il 1478. L'edizione sublacense del Lattanzio era stata di 275 esemplari, di essa si conoscono superstiti circa quaranta copie, di cui diciassette in Italia (la bellezza dell'opera ha fatto sì che nel 1972 sia stata riprodotta, proprio in 275 esemplari dalla casa editrice Bramante di Milano). Ma già quasi due secoli prima nella facciata del Duomo di Siena lo scultore Giovanni Pisano aveva anticipato questa tematica con le statue di Platone, Aristotele e di una Sibilla, che uscivano fuori dagli schemi vetero testamentari della facciata stessa, mentre una tarsia con lo stesso Aristotele era già presente nel pavimento dal 1406, con Epitteto, Euripide e Seneca.
Pochi anni dopo la stampa del Lattanzio era incominciata la circolazione, a partire dal 1474, in latino ed in volgare del De Christiana Religione di Marsilio Ficino. Imbevuto di ermetismo (proprio il Ficino aveva tradotto in latino negli anni 1463-1470 il Corpus hermeticum, che c'è giunto col nome di Ermete Trismegisto, diventando uno dei testi chiave nel Rinascimento), questo platonismo cristiano pone al centro la filosofia dell'amore, che segnò profondamente le corti europee fino all'autunno del Rinascimento, evidenziando nella sua speculazione filosofica, come fa Baldesar Castiglione (1478-1529) alla fine del suo Cortegiano, il cammino dell'anima tra terra e cielo: [.] E però, come il foco materiale affina l'oro, così questo foco santissimo nelle anime distrugge e consuma ciò che v'è di mortale, e vivifica e fa bella quella parte celeste che in esse prima dal senso mortificata e sepulta. Questo è il Rogo, nel quale scrivono i poeti esse arso Ercule nella summità del monte Oeta e per tal incendio dopo morte sembra esser restato divino e immortale; questo è lo ardente rubo di Mosè, le lingue dispartite di foco, l'infiammato carro di Elia, il quale raddoppia la grazia e la felicità nelle anime di coloro che son degni di vederlo, quando da questa terrestre bassezza partendo se ne vola verso il cielo. [.] IV, LXIX.
Ma torniamo alle Sibille: esse trassero la loro ispirazione dall'influenza della corte estense, in particolare dall'"anticamera" di Belriguardo. Proprio le relazioni che Giovanni Romei fu capace di intrecciare con i signori della corte furono di grande importanza nell'opera di accrescimento del suo patrimonio e della propria statura sociale e politica: da giovane Giovanni Romei aveva sposato Lavinia Baroni, figlia di un uomo legato a Niccolò III, ed intrattenne in seguito rapporti con Leonello, Borso ed Ercole. Notevoli anche i rapporti con gli uomini dotti della sua città e gli artisti del tempo.
Le Sibille di casa Romei sono dodici, ciascuna col suo vaticinio e con dei tratti personali, come voleva la nuova iconografia; ma per altre caratteristiche, quali l'essere raffigurate senza attributi, in piedi (senza troni) e, soprattutto, circondate dal verde, ne potrebbero costituire una variante cortese. Sono molto rovinate e occupano interamente le pareti della stanza accompagnate soltanto da una
Natività affrescata in una nicchia, estremamente deperita. La camera, di cui non si conosce la funzione, è al piano terra. Le Sibille sono raffigurate in piedi su un terreno di cui si riconoscono ancora numerosi piccoli arbusti, entro un hortus conclusus, circondato da una siepe di rose: lo steccato che sostiene il roseto è visibile all'interno del giardino.
La decima Sibilla, quella Tiburtina, è raffigurata giovane, velata, vestita con abito grigio, stretto sotto il seno come quello della compagna che la precede, la cui scollatura pare anch'essa abbellita da numerose perle; indossa un manto dall'interno verde con i bordi impreziositi da perle. Con la destra solleva il manto, con la sinistra tiene il cartiglio, la cui iscrizione purtroppo non è ricostruibile.
(dicembre 2012)
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