Nel Fondo Antico della Biblioteca Comunale di Tivoli è custodito un piccolo numero di manoscritti del tutto sconosciuti, tre dei quali ascrivibili alla fine del secolo XVI, che intrecciano la loro “fortuna” con la composizione di una “libraria” collegata ai bisogni di quella “scuola dei Gesuiti” istituita a Tivoli il 9 settembre del 1548 dallo stesso fondatore della Compagnia, Inijgo de Loyola, immediatamente dopo l’apertura a Messina del primo Collegio. Nel secolo degli Estensi toccò a Tivoli il privilegio di aprire la prima scuola italiana del Rinascimento ad civitatis utilitatem.
L’insegnamento impartito dai Gesuiti seguì indubbiamente una metodologia “atipica” quanto a finalità, testi in uso, loro reperimento. Ci serviamo, a scopo probatorio, delle Relazioni quadrimestrali – che, per disposizione del Fondatore – dovevano essere inviate alla Casa Madre, e dai Libri dei conti.
La “schuoletta” di Tivoli nasce circa un decennio dopo l’approvazione della regola della Compagnia di Gesù da parte del pontefice Paolo III (3 settembre 1539) in un periodo particolarmente turbolento per la zona, trovandosi la città impegnata in molteplici contrasti con i paesi vicini, tanto da richiedere l’azione pacificatrice dello stesso Ignazio, dietro pressioni del cardinale De la Queva. Risale già all’ottobre del 1548 la venuta a Tivoli del gesuita per tentare una riconciliazione con la vicina Castel Madama. Nei locali ceduti alla Compagnia religiosa a titolo di ringraziamento per il successo degli interventi diplomatici, padre Michele Ochoa, detto il Navarro, dà inizio ad una rudimentale forma di insegnamento, non del tutto rispondente alle direttive di Ignazio, ma l’unica possibile per i giovani del luogo, quasi completamente analfabeti. Ad essi si insegna a “compitare” e fare un po’ di conto secondo il programma delle “schuolette per li abecedari” ma con la penosa certezza che quanto prima l’estrema indigenza della zona, peste, carestia, saccheggi, toglieranno i giovani dalle aule scolastiche per essere avviati “alle fatighe”. Pochi rimarranno, in numero esiguo quelli che passeranno alla scuola superiore, strutturata generalmente in “Collegio” o “Seminario” (successivamente “Convitti” per distinguerli dalle istituzioni di formazione religiosa ). E solo per questi ultimi – privilegiati per nascita e per censo – viene approntato un corso propedeutico espressamente finalizzato ai successivi “studi di latinità” (equivalenti alla scuola superiore) ; e non poteva essere altrimenti, sia per la tipologia degli allievi, non programmabile in anticipo a causa del loro andirivieni motivato dalle esigenze di lavoro stagionale , sia per la non definita struttura della scuola in rapporto alle incostanti decisioni della Municipalità di allora, non unanime nell’assicurare l’istruzione gratuita ai giovani.
La “schuoletta” sorta a Tivoli assomma, in forma non del tutto evidenziabile, il rudimentale corso per “li abecedari” e “la prima classe di grammatica”, dove, trascurate quasi completamente discipline come l’aritmetica e la stessa lingua italiana, secondo un programma di studio tipico del Rinascimento e che andrà sempre definendosi nelle scuole dei Gesuiti, i giovani allievi sono avviati direttamente allo studio dei primi elementi della lingua latina.
La scuola istituita a Tivoli coprì fin dall’inizio l’unica vera necessità locale limitata all’insegnamento elementare, tanto che mentre in tutta la penisola esso veniva progressivamente abolito, i diversi tentativi di fare altrettanto in questa città suscitarono numerose proteste da parte del popolo e della stessa municipalità. Citiamo l’episodio della supplica inviata alla Casa Generalizia l’8 ottobre 1568 in cui i Priori di Tivoli si dolevano fortemente che si intendesse “privar li puttini del benefitio della schola”, pregando di continuare questa gratia speciale, “in considerazione che ridonda in benefitio di poverelli più che di ricchi, li quali non curano età né tempo per imparare […] li poverelli, dopo li dieci anni e dodici, si mettono alle fatighe per vivere e però, se non imparano qualche cosa avanti, non possono più attendervi ”. Solo nel 1574, adducendo la scarsità dei maestri e altre motivazioni speciose, sotto il generale dei Gesuiti Everardo Mercuriano, la “schuoletta” fu chiusa – e fu l’ultima in Italia – e anche nella nostra città fu possibile attuare parte del programma scolastico ignaziano proiettato esclusivamente verso l’istruzione umanistica di livello superiore (così nelle Annue, 76v: “Le scuole in questo collegio – Tivoli – si sonno alquanto mutate, perché, essendosi mandati via quei putti che, non havendo quei fondamenti che si ricercono nelle schuole nostre, erano di gran fastidio et poco frutto facevano, si sono ridotte le scuole a due, et li scolari a 60, di buona età e di qualche speranza in lettere ”).
Nei primi venticinque anni di funzionamento, nell’Istituto di Tivoli si avvicendarono una diecina di Rettori (Ochoa, Oviedo, Girardin, Cavaliere, Pradene, Amodei, Scorzini, Androzi, Bantio, Capello) e un numero imprecisato di insegnanti, non tutti, ovviamente, della stessa valenza culturale e pedagogica, anche a motivo del singolare tipo di reclutamento attuato: il neo collegio sembrava sussistere più per la salubrità del clima tiburtino che per servitium di realistiche necessità locali. I padri gesuiti, in sospetto di tisi o di affezioni catarrali, venivano inviati al soggiorno termale di Tivoli per usufruire delle famose acque Albule. Se ne lamenterà in una accorata lettere del 1563 il Rettore Scorzini che pone anche l’accento sul fatto che una certa libertà di costumi, tipica dei promiscui luoghi termali, aveva finito per inquinare addirittura la condotta di qualche padre dal carattere non del tutto stabile, come tal “fratello Guido”. In cambio del soggiorno termale, questi Padri collaboravano al funzionamento della scuola in maniera comunque discontinua ed imprecisa, sì da rendere impossibile l’attuazione di un programma didattico organico, senza parlare della serie di spese vive che una istituzione scolastica richiedeva e che non sempre potevano essere onorate. A Tivoli, la povertà della Compagnia e la mancanza di contributi o elargizioni certe costringevano Rettore ed insegnanti a vivere di elemosina e di espedienti, essendo scarsissimo l’aiuto inviato dalla Casa generalizia. Il Polanco, scrivendo il 25 febbraio 1552 al confratello Lucio Croce, nipote del vescovo di Tivoli Marcantonio Croce (primo tiburtino ad entrare nella nascente Compagnia di Gesù, rimettendo i voti nelle mani dello stesso S. Ignazio) così si esprimeva: “no corresponden los de Tibuli […] de acà se han de mantener los operarios! ”. Per inciso ricordiamo che Marcantonio Croce fu presente nel 1539 nella Rocca Pia quando Paolo III Farnese diede la sua solenne approvazione alla Regola della nascente Compagnia religiosa. La Municipalità tiburtina inoltre sembrava voler deliberare forma di pagamento solo quando si ventilava la minaccia della chiusura; nel 1564, per esempio, stanziava un contributo di soli 60 scudi annui per circa 160 scolari affidati a 3 insegnanti. Solo in maniera desultoria e soprattutto discontinua essa sembrava accorgersi dell’opera essenziale svolta dalla Compagnia di Gesù, cui comunque ricorreva con suppliche e petizioni sempre più frequenti, soprattutto quando si ventilava il pericolo di chiudere l’istituzione e inviare i Padri altrove.
Nel 1553 si verificò la concomitanza della messa in vendita della casetta tiburtina usata dai padri Gesuiti e la richiesta da parte del re del Portogallo di un certo numero di religiosi da inviare in Etiopia, indicando espressamente di preferire i Padri residenti a Tivoli. Cogliendo tale occasione lo stesso S. Ignazio nel mese di dicembre trasmetteva al Rettore Girardin l’ordine di chiudere definitivamente la casa e di tornare con i confratelli a Roma. Alla notzia scoppiò in città una specie di sommossa e il Capomilizia (carica equivalente a quella dell’odierno Sindaco) fu costretto a scrivere una supplica estremamente accorata: “Havendo inteso che la R.V. s’è risoluta levare M. Desiderio et compagni de qui […] per Dio e per l’amore che V.R. mostra portarlo[…] voglia esser contenta, non possendo aggiungercene delli altri, che almeno questi che ora vi stanno non ci sian tolti, giachè […] non ne semo noi men bisognosi che qualsivoglia altro populo. Et se per adiuto si fosse in qualche parte mancato a quel che doveamo […], più presto è causato o del poco potere che la nostra communità ha hauto questi anni adrieto, per esser stata di continuo travagliata da pubbliche inimicizie et liti, o da poca cura che ne han havuta quelli che ne hanno tenuto il loco che hora noi tenemo. Sichè, senza haver dubio che per l’avenir s’abbia a mancare, piaccia alla R.V. non negarci così honesta adimanda”(Epp. mixt. IV 65).
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