Il Lorrain trovò a Roma maestri della prospettiva e i paesisti bolognesi, e nel paesaggio romano luce e linee incomparabili. Compose per 55 anni di seguito paesaggi, conservati soprattutto nelle gallerie inglesi, nazione in cui si ebbe un vero e proprio culto di questo pittore del sole e del mare. Disegnò molto a seppia , praticò l'acquaforte. Le sue opere pittoriche si basano soprattutto su paesaggi (ne colse i motivi, vagando con J. Sandrart nella campagna romana, nei monti Sabini, sui Colli Albani) e marine o a porti di mare. Aveva uno straordinario rapporto immediato con la campagna romana che studiava, come afferma il proprio collega Joachim von Sandrart, "stando sdraiato nei campi prima dell'alba e fino a notte per imparare a rappresentare il dorato cielo mattutino, l'alba ed il tramonto". Importava soprattutto all'artista la poesia dell'universo e fu infatti pittore della luce e del sole. Nei suoi paesi, la prospettiva aerea fa intravedere, tra scure inquadrature di fronde e di architetture simili a quinte, orizzonti scintillanti nella nebbia dorata. Studiò, nella campagna romana, i fenomeni luminosi varianti con le ore, cioè con l'angolo di incidenza della luce, tanto da fare del Lorrain un precursore dell'impressionismo. La luce del Lorrain si diffonde perciò a permeare tutto il paesaggio, collocando primo piano e sfondo in una unità spaziale continua, provenendo da una zona del cielo appena al di sopra dell'orizzonte, cosicché lo spettatore fissa direttamente lo sguardo in essa.
Amò i mattini delicatamente argentati in un'atmosfera sempre trasparente, oppure lo splendore del meriggio, ma l'ora prediletta fu quella del tramonto, quando le ombre si allungavano consentendogli i toni dorati da lui ricercati. Nella maggior parte dei suoi paesaggi terrestri si trova sempre l'acqua, lago o fiume, perché è lo specchio della luce. In questa visione immaginaria vediamo che al centro dell'attenzione non è la nostra città o i suoi motivi architettonici ben delineati, come il tempio rotondo dell'acropoli, o le cupole di Roma sullo sfondo, ma la luce all'orizzonte: sembra di sentire lo sforzo dell'ultima luce che vuol rendere sicuro il cammino dei viandanti, che al termine della giornata si affrettano a tornare a casa. Come non pensare allora, con questa poesia del sole, che il nostro quadro è datato 1642, l'anno della morte di Galileo Galilei (1564-1642), perché proprio sotto Urbano VIII ebbe luogo il famoso processo che portò alla condanna definitiva del celebre scienziato.
(Lo stesso Urbano VIII, ricordiamolo, è passato anche alla storia per una spogliazione che poteva portare alla distruzione del monumento antico più importante dal punto di vista architettonico: il Pantheon. Infatti per rafforzare Castel Sant'Angelo dotandolo di una batteria di cannoni in bronzo, utilizzò le massicce travi tubolari in bronzo del Pantheon, utilizzate anche per il baldacchino in San Pietro. Questa violazione di un edificio sopravvissuto fin dai tempi dell'Impero Romano, portò al celeberrimo detto: "Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini"). E' evidente perciò anche la riflessione sull'universo che prende l'osservatore nel mirare l'aspetto presente e passato, quasi una contrasto tra l'architettura immutabile della nostra città e l'ora presente. Lo sdegnoso tempio rotondo dell'acropoli (universalmente riconosciuto e citato come Tempio della Sibilla), dall'alto dei suoi secoli di storia, non si cura dei viandanti, né tanto meno della luce del sole che sta tramontando: sembra, come le Piramidi, che non abbia paura del tempo.