Scriveva il medico tiburtino Tommaso Neri nel 1622 nella sua opera “La salubrità dell’aria di Tivoli”: «È notissima in tutt’Italia la bontà e la quantità dell’olio di Tivoli, al punto che non c’è città che si possa paragonare ad essa, poiché l’olio, se è puro e buono come quello tiburtino, è digerito molto facilmente e conferisce massima forza e ammorbidisce il ventre ed elimina ogni asperità, acuisce la vista, rafforza contro tutti i veleni, ogni pestilenza e ogni putrefazione, ingrassa, ricostituisce un buon aspetto, assicura un buon apporto calorico , allevia e mitiga ogni specie di dolore, ma soprattutto è salutare per chi soffre di nefrite, fratture e rotture; toglie la stanchezza e assicura al corpo umano non solo questi, ma anche molti altri utili usi, trasferendo ad altri oggetti le sue qualità. Infatti impedisce alla legna di marcire, ai metalli di arrugginire, separa la pece e la resina e sopprime ogni animale nato in modo anomalo e rafforza l’efficacia di tutti i medicamenti e i loro profumi. Con il passar del tempo il nostro olio tiburtino diviene più leggero e più potente. Inoltre fa sviluppare fegato, cervello, midolla e ottiene questo effetto per la sua essenza leggera. Possiede molte altre doti e benefici effetti, come riporta Galeno sull’olio di Tivoli e su quello sabino, nel De compositione pharmacorum localium, sive secundum locos».
Naturalmente a noi interessa, in questa rubrica, l’aspetto estetico degli alberi di olivo tiburtino, che da sempre hanno richiamato l'attenzione di artisti di ogni parte del mondo. I tronchi nodosi in quest’ultimo periodo vengono considerati come veri e propri oggetti di arredamenti, tali da essere inseriti in piazze e giardini. Ed ecco allora questa tela conosciuta nel mondo anglosassone come “Olive Trees near Tivoli” (Olivi presso Tivoli), cm. 37,4 x 60,5, datata “Tivoli 18-30 aprile”, l’anno è il 1869, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt, Parigi, opera del danese Janus Andreas Bartholin la Cour (1837-1909). Dovendo molto agli artisti del Secolo d’oro danese, tra cui il suo insegnante, Peter Christian Skovgaard, La Cour è ricordato per la sua capacità di catturare la qualità atmosferica dei paesaggi nei paesi che ha visitato - Francia, Italia e Svizzera - così come per la sua nativa Danimarca. I suoi riconoscimenti includono la Medaglia Thorvaldsen nel 1871, la nomina a professore alla Royal Danish Academy of Fine Arts, Copenhagen, nel 1888 e decorazione con l’Ordine del Dannebrog nel 1892.
Successore di seconda generazione di Christoffer Wilhelm Eckersberg (1783-1853), “padre della pittura danese”, il paesaggista danese Janus La Cour, deve molto agli artisti del secolo d’oro danese e fu fortemente influenzato dal suo amico e mentore P. C. Skovgaard (1817–1875). Entrato all’Accademia di Copenaghen nel 1857, beneficiò più volte di borse di studio che gli permisero di soggiornare in Francia, Svizzera e Italia, dove si recò regolarmente dal 1865. Durante una visita a Tivoli nel 1869, La Cour scelse di concentrarsi su un boschetto di antichi olivi, ignorando volutamente le famose Cascatelle e gli elementi architettonici. Evidentemente si è divertito a restituire il gioco di luci e ombre sui tronchi nodosi e i riflessi capricciosi del sole sulle foglie.
Questo studio deriva sicuramente da osservazioni sul posto, e reca infatti la data “Tivoli 18-30 aprile” incisa nell'angolo in basso a sinistra. La Cour aderì senza dubbio ad una delle raccomandazioni di Pierre-Henri de Valenciennes (1750-1819), figura importante nell’evoluzione della pittura di paesaggio, che, come pittore, insegnante e autore, sosteneva che i paesaggi composti fossero basati sullo studio diretto della natura. La Cour è quindi probabilmente tornato sul sito con gli olivi tiburtini più giorni di seguito per brevi sessioni di lavoro, in modo da ritrovarvi le stesse condizioni di luce. La Cour aveva un approccio meticoloso alla pittura all’aperto che contrastava in modo molto marcato con le nuove correnti emergenti all'interno della pittura paesaggistica francese, di cui egli stesso criticava il gusto per “i colori spessi e la pennellata goffa”.
A proposito dell’olivo mi piace riportare la leggenda che l’amico ing. Gianni Andrei ha recentemente sottolineato nelle sue note, sempre attuali e ben gradite, a corredo delle sue osservazioni sulla nostra città:
«Piero Bargellini (1897-1980) è stato uno scrittore, politico, insegnante e Sindaco di Firenze durante l'alluvione del 1966. Autore di area cattolica, fu vicino a Giovanni Papini e Carlo Betocchi e con loro ha condiviso l'esperienza della rivista “Il Frontespizio” (1929-1940), di cui fu direttore. Con Nicola Lisi e Carlo Betocchi, ideò peraltro, ad inizio degli anni Venti, il “Calendario dei pensieri e delle pratiche solari” impostato tipograficamente sul modello delle stampe popolari dell’Ottocento. Ecco quanto scrisse sull’olivo.
La leggenda dell’olivo
Al tempo in cui Gesù era ancora piccolo, i Farisei lo cercavano e la sua mamma lo seguiva e lo proteggeva.
Un giorno, Maria tremò di spavento, perché essendo in aperta campagna e vedendo i suoi nemici in lontananza, che venivano verso di loro, non sapeva dove rifugiarsi.
C’era vicino una pianta d'olivo e la Madonna la supplicò che nascondesse lei e il suo Bambino.
L'olivo si aprì, inarcò i rami come una capanna, accolse la Madonna e Gesù e li chiuse sotto le sue fronde.
Quando i Farisei giunsero sul luogo, cercarono, guardarono, ma non videro che l’umile pianta silenziosa. Si avviarono in altro luogo per cercare altrove. Tornata la calma, l'olivo alzò le fronde e la Madonna e Gesù poterono uscire sani e salvi. La Madonna ringraziò la pianta e disse che il suo frutto sarebbe stato santificato.
Per questo l’olivo dà ristoro nel cibo, allevia i dolori delle ferite e delle scottature, conforta i morenti».
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