Abbiamo già detto che questa "Veduta ideale della Rocca Pia", databile al 1800, penna ed inchiostro di China, acquerello messo in evidenza con guazzo, resti di vernice su carta J. Whatman incollata interamente su tela, cm. 80x125, Musée cantonal des Beaux-Arts, Lausanne, è un unicum per il pittore svizzero Abrham-Louis-Rodolphe Ducros, nato a Moudon nel 1748 e morto a Losanna nel 1810. Non viene rappresentato infatti un paesaggio reale, ma l'opera può essere catalogata come un "capriccio", o "veduta ideata" che dalla pittura veneziana, tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento, si configura come un genere vero e proprio, ossia come l'arte di comporre il paesaggio attraverso la libera combinazione di elementi architettonici reali o fantastici, di rovine dell'antichità rielaborate ed accostate tra loro, pur se appartenenti a realtà distanti.
L'opera è spettacolare nella sua interezza, ma merita che da questa venga estratto e mostrato il particolare proprio con la Rocca Pia, restituita alla città di Tivoli nel mese di dicembre 2018.
Questa magnifica fortificazione fu realizzata a partire dal 1461 per iniziativa di Pio II Piccolomini (pontefice dal 1458 al 1464), da cui il nome di "Pia" o "castello di Pio II". Le due torri maggiori furono inserite nella cerchia delle mura, che circondavano e difendevano la città, mentre le due più piccole sono all'interno delle mura stesse.
Delle mura rimane solo, in questa zona il tratto, fatto rialzare dal pontefice, che da una delle due torri maggiori arriva fino all'attuale ristorante "Incannucciata" inserito proprio in una delle maestose porte d'accesso alla città, chiamata "Casamatta", difesa da un baluardo, ancora ben conservata pur se nascosta in parte dalle strutture del Ristorante stesso, ma ben più visibile in alcune stampe dell'ottocento come quella di Costant Bourgeois "Vue d'une ancienne porte à Tivoli", del 1804.
Il particolare dell'opera di Ducros rende evidente le due torri maggiori ed una delle minori, raccordate da alti muraglioni, coronati come le torri, da archetti pensili d'impronta medievale. L'ingresso alla fortezza, che doveva essere controllato da un ponte levatoio, avviene sul lato nord. Lo stemma del pontefice è inserito, non perfettamente leggibile, tra il muraglione che unisce le due torri, mentre la vegetazione che lambisce la fortezza ci rende idea delle condizioni della fortezza nel 1800 all'epoca dell'opera del Ducros.
Nel 1744, durante l'ultima fase della guerra per la successione austriaca, la Rocca fu occupata dagli Austriaci, che ne curarono la ripulitura ed i restauri, ma non fecero in tempo ad utilizzarla, perciò ricadde in uno stato di abbandono. Nel 1799, durante le operazioni antigiacobine nel Lazio, la Rocca fu tenuta dai Francesi e poi da trecento «insorgenti» di Gian Pasquale Caponi, il noto capomassa liberatore della Valle dell'Aniene, comandante dei «reazionari», che vedendosi però troppo esposto con così deboli forze ad essere circondato dalle truppe francesi, fece ritorno dopo qualche giorno a Subiaco. La Rocca in quel periodo fu utilizzata solo come caserma e carcere. All'età napoleonica sembra doversi attribuire il corpo aggiunto nell'interno, goffamente addossato alla cortina settentrionale, la cui erezione comportò modifiche strutturali delle due torri minori e rimpiccolì la corte di circa un terzo della sua superficie.
Esiste in proposito la perizia, eseguita dall'architetto comunitario Giacomo Maggi, datata al l0 novembre 1809. Il motivo della perizia stava nell'intenzione del governo imperiale francese di adattare la Rocca a prigione. Il Maggi fu diligente rilevatore e progettatore di restauri, forse con l'intento segreto di salvare lo splendido manufatto, allontanando da esso il pericolo dell'annientamento, cui in Francia tali fortezze erano andate incontro a cominciare dalla Bastiglia; e quella tendenza distruttiva si stava allora diffondendo anche in Italia. Egli definì l'edificio idoneo a carcere, perché aveva buona aria, solida costruzione, spesse pareti, era sicuro ed inaccessibile dall'esterno, capace di ospitare un centinaio di reclusi. Una delle torri aveva una cisterna d'acqua, raccolta mediante canali dai terrazzi delle torri e dal cortile. Tutto il complesso era allora coperto da vegetazione parassitaria e pieno di rifiuti, privo di scale d'accesso e pressoché abbandonato. Doveva quindi essere svuotato e ripulito, poi restaurato a partire dal cortile, che presentava un pavimento a mattoni posti di taglio, fino al coronamento delle torri.
Per tutto il secolo XIX la Rocca alternò la funzione di caserma per i reparti pontifici con quella di prigione, poi rimase soltanto come istituto carcerario sino al 1962. Nel 1930 Vincenzo Pacifici ne aveva proposto l'utilizzazione come sezione militare del Museo Etnografico Italiano, allora ospitato a Villa d'Este, e più volte la Società Tiburtina di Storia e d'Arte ne sollecitò il restauro per una destinazione meno avvilente. Per fortuna la Rocca uscì indenne dalle distruzioni del1'ultima guerra. Dai tempi della prima costruzione numerose vicende hanno lasciato traccia nelle mura della Rocca, alterandone in parte ambienti e strutture; ma proprio l'utilizzazione per fini carcerari ha salvato il monumento, mentre altre fortezze simili, lasciate nel più completo abbandono per incuria o perché ritenute simboli di presunte e scomparse tirannidi, si ridussero a cumuli di macerie.
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