A lungo tra i partecipanti alle mostre Internazionali di Monaco (1896-1914), in Italia vanta una consistente attività espositiva personale: dalla sala dedicatagli alla II Biennale di Roma (1923), alle rassegne milanesi di Bottega di Poesia e della Galleria Pesaro (anni Venti e Trenta), per giungere alla mostra inaugurata presso il Palazzo Reale di Milano pochi giorni prima della sua morte.
Fu definito il pittore "senza pennello" per la sua particolare abilità nel tratteggiare figure e contorni di straordinaria plasticità e vigore usando le spatole, Ettore Cosomati ebbe tra l'altro l'onore di avere una monografia scritta da Carlo Carrà nel 1923.
Questo "Pianura verso Roma, da Tivoli", olio su tela, cm. 60,6 x 74,8, siglato con monogramma in basso a destra "E. C.", databile al 1930-1935, fa parte della collezione della Fondazione Cariplo, attualmente esposto nel Centro Congressi Cariplo, Palazzo Confalonieri in Via Romagnosi, 5 a Milano. Acquistato nel 1957, il dipinto è conservato nella cornice originale in legno, modanata da un fregio. Sul retro del telaio l'iscrizione autografa: "2. F. COSOMATI Pianura verso Roma, da Tivoli" consente di identificare con sicurezza il soggetto trattato.
L'acquisto dell'opera, trattato direttamente con l'artista grazie all'intermediazione di Mario Miniaci, nipote del pittore, allora membro della redazione del "Corriere della Sera". Miniaci si rivolse al presidente della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde per segnalare le difficili condizioni economiche dell'ormai anziano pittore, invitandolo ad acquistare una sua opera. La richiesta venne accettata dopo una visita nello studio dell'artista da parte di una delegazione dell'Istituto guidata da Nino Gutierrez, dirigente del Servizio beneficenza della Cassa di Risparmio. Ed infatti una serie di carte d'archivio testimoniano come l'artista, ormai molto anziano e completamente estromesso dal mercato artistico milanese, versasse in pessime condizioni economiche. Si tratta di un dipinto probabilmente riferibile alla prima metà del quarto decennio del secolo scorso, datazione ipotizzabile grazie a una perfetta consonanza stilistica con altre prove di questo periodo, caratterizzate dall'abbandono di quella spazialità netta e di quella pittura asciutta che avevano connotato la sua produzione degli anni Dieci-Venti, per una resa pittorica più fluida, a pennellate larghe e grasse, definita dalla critica contemporanea "quasi sensualistica" (V. Costantini, Pittura italiana contemporanea, Milano, 1934, p. 354).
A questa stessa fase vanno ricondotti numerosi paesaggi e scene di genere in cui, come in questo caso, gli sforzi dell'artista sembrano concentrarsi nella resa atmosferica, nitida, quasi cristallina e in quella volumetrica.
Proprio su questi aspetti insisteva Bucci attribuendogli anche una spiccata sensibilità cromatica: "Egli modella, anzi nella luce: i suoi paesaggi hanno pochissime ombre. Né la forma è a scapito del colore, ché l'effetto cromatico, in una gamma il più delle volte calda di tinte, è anch'esso raggiunto. E alla giustezza del colore come all'evidenza della modellazione concorre la tecnica dell'artista, che dipinge soltanto con la spatola, a tocchi netti e sicuri, accostando i toni per modo che un tono determini, con la stessa materialità dell'impasto, il valore del tono vicino" (V. Bucci, Ettore Cosomati, in "Corriere della Sera", 19 aprile 1923). In particolare, in quest'opera di soggetto tiburtino, i verdi e i bruni descrivono con pennellate dense il paesaggio collinare e pianeggiante, esaltandone l'orografia e conferendo all'immagine uno spiccato senso plastico e un'accentuata prospettiva cui concorre la luminosità del cielo oltre l'orizzonte.
(novembre 2015)