Nel 1870 si registra l’avvento delle prime macchine frigorifere; pur tuttavia continuò ancora a lungo la raccolta/conservazione della neve nonché del ghiaccio naturale ricercati per rinfrescare le bevande, per preparare sorbetti e da usare come antipiretici.
L’importanza era tale che il Pontefice nel suo Stato concedeva in appalto la raccolta ed il commercio della neve con appositi e dettagliati contratti; la giurisdizione pontificia si estendeva per un raggio di 60 miglia da Roma. Già al tempo degli antichi Romani si praticava tale commercio (lo confermano Seneca, Aulo Gellio, Plinio); solo durante il Medioevo esso subì nel Lazio un fermo. E’ datato al lontano 1608 il primo contratto di appalto (ritrovato) per la privativa della neve; aveva la durata di nove anni durante i quali l’appaltatore aveva il monopolio dietro il pagamento della “corrisposta” (in genere una somma piuttosto salata). Se le precipitazioni nevose erano scarse spesso gli appaltatori non riuscivano a rispettare il loro impegno.
La stessa cosa accadeva quando, nevicando nella stessa Roma, il mercato diminuiva la domanda, essendo autorizzato in questo caso ad utilizzare la neve per proprio uso senza farne commercio. In tal caso la neve era collocata nelle apposite “conserve” (locali in muratura di forma cilindrica o parallelepipeda con capacità non superiore a 200 mc) che avevano sia i conventi che i palazzi nobiliari.
Avendo uno spessore di oltre un metro, il muro perimetrale (foderato di paglia come il fondo per avere un maggiore isolamento termico) permetteva alla “conserva”, quasi totalmente interrata, di mantenere quasi intatta la neve. Il Prof. Scotoni (Facoltà di Lettere - Università di Roma “Tor Vergata”), che con la sua accurata indagine ci ha permesso di esporre tali argomentazioni, ne ha localizzato a Roma e nel suburbio ben 42, ma suppone che fossero molte di più non essendo tutte denunciate. Gli appaltatori inoltre vedevano in parte diminuire i loro guadagni anche a causa del naturale squagliarsi della neve (se ne perdeva ca. un terzo) soprattutto se essa era lasciata nei depositi scoperti dove nelle giornate estive afose lo scioglimento era ancora più accentuato.
I grattacapi quindi non mancavano e tra questi occorre annoverare le sanzioni che gli appaltatori dovevano pagare se non rifornivano in tempo la corte pontificia ed i nobili romani, principali fruitori del servizio. Essi inoltre erano tenuti a fare in modo che gli spacci di neve fossero sempre ben forniti per soddisfare le esigenze anche dei malati.
Stando così le cose, dovevano procurarsi delle scorte per diciotto mesi; fin quasi alla fine del XVIII sec. una riserva era la neve di Carpineto (Monti Lepini). Oltre alle predette“conserve”, c’erano altri pozzi: quelli della Camera Apostolica (detti “camerali”), quelli dei subappaltatori, quelli clandestini. I pozzi della neve (di forma a tronco di cono rovesciato) erano delle profonde buche artificiali scavate nel terreno in montagna, in luoghi esposti a Settentrione; in rari casi venivano utilizzate grotte come è invece nel caso della “Grotta della neve” a Filettino, o doline (vedi Monte Fragara presso Veroli). Per conservare ancora meglio la neve, si progettò di coprire tali pozzi.
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