“Lu pratusangiuvanni, a lizza…”

Oggi non si gioca più a lizza; forse i ragazzi, oggi, neppure sanno cos’è la lizza. Sono passati coinquant’anni, il tempo ha cancellato molti, se non tutti, i giochi che eravamo costretti ad inventare per mancanza di giocattoli. E il tempo ha cancellato qualcosa di più importante, per me: il pratosangiovanni.

Di esso resta il nome, ma solo nel mio cuore; ché oggi gli hanno dato un nome diverso; lo hanno chiamato largo giovanmaria nanino, a ricordo e in onore di un musicista tiburtino del ‘500.

Il largo invero è diventata una strettoia, dove a malapena si può passare per recarsi laggiù dove persino l’immenso albero di noci di adele, oggi, soffre l’aria inquinata dagli scappamenti delle macchine che occupano tutto lo spazio che una volta era il prato.

Addio, pratusangiuvanni meu! Anche i miei anni stanno appassendosi sotto l’incalzare impietoso del tempo, signore imperituro delle cose. Addio!

Chi si trovi ad andare oggi, non può capire ciò che dico; no, non può capire, perché non sa il silenzio e l’aria pulita di allora; non conosce i misteri dei nostri mille giochi, vivi ancora solo nella memoria; non sa il palcoscenico che era il prato per la giornaliera rappresentazione dei nostri sogni, dei nostri giochi, delle semplici commedie della vita di noi giovani.


Conevnto di S.Nicola

Non c’erano per noi, il tennis e il nuoto, moderni divertimenti a pagamento, o le moto e le macchine; comprate da papà perché sono stato promosso, come s’usa oggi; c’erano solo i giochi all’aria aperta, inventati giorno dopo giorno; ed ecco spuntare la lizza…

Ecco, torno indietro ad occhi chiusi, e la memoria mi permette di giocare ancora. Come allora, in mutandine e canottiera, giù al prato, e con me gli altri: franco bubbolo’, pierino lu figghiu de adele, e bruno e ernesto, li figghji d’enea…

Qualcuno trova un bastone di scopa; ne tagliamo un pezzo di circa un palmo, e con un coltello rimediato di nascosto di mamma, ne appezzutemmio i due estremi sì da ricavarne due punte, e èsso fatta la lizza. E vualà, sotto un sole cocente (che, per dirla come mamma, che non vuole farmi scendere al prato perché fa troppo caldo, è ‘nzòle che spacca lu culu a lli passari), si comincia a giocare a lizza.

La lizza ce l’abbiamo, il bastone pure, non ci resta che giocare; si fannu le squadre co lla conta (a chi viene sceglie), e si parte. La conta si ripete diverse volte, perché: non vale, sì fregatu!.


Salita a Monte Catillo

Batto io; pongo con accuratezza la lizza per terra, dopo aver spolverato il piano col palmo della mano, che mi pulisco sulla canottiera, mi preparo da un lato, e gli avversari s’allontanano a cercare di parare a volo la lizza, per eliminarmi (e se non ci riescono, dal punto dove arrivo, batterò altre due volte, e il punto finale sarà segnato, in attesa dell’altra squadra.

Col bastone dunque, lungo una metrata appena, batto forte la lizza su una delle punte, questa s’alza e gira su se stessa, la piglio al volo e ci do una botta il più forte possibile; se la colpisco bene, se ne vola bella lontana, sorvolando quilli dell’ara squatra; corro, batto ancora per altre due volte. I colpi sono stati buoni, e ho percorso tre quarti de pratu, quasi fino alla strada asfaltata che bolle sotto il sole torrido.

Gioco semplice e avventuroso, tra grida di entusiasmo, per i colpi belli, e di disperazione per i colpi fasulli, sottolineati dagli sfottò…

Le squadre si alternano, e il tempo passa, le mamme chiamano; noi rispondiamo strillenno: ‘n aru pocu, a maaaa…, loro insistono e noi pure; va a finire che più tardi, come al solito, le prenderemo di sicuro.

Dimenticavo: nella battuta si grida una cantilena propiziatoria: cirummeeeè, vola bbeeee’…
Il buon grottaroli, al di là della tiburtina, stavolta non ha da lamentarsi; ché la lizza non ha raggiunto i vetri del suo negozio di mobili. E’ vero, ci guarda sempre in cagnesco, ma fuma la pipa, senza parlare, seduto fuori, su una vecchia poltrona…

… vecinu all’entrata p’ariva’ a lle scali, ci steanu do’ vaschi… che ci ss’aprea denanzi la finestra della cocina de adele, a pianu tera. Da defòre ci vedemmio drento casa; èsso perché essa non volea che ci fermemmio a giocà loco, co ll’acqua. Ma nui certe vote facemmo le barchette co lli fogghji de lli quaterni feniti, ma dureanu pocu; allora aretagghiemmio le scorze de sucaru a qua’ truncu d’arberu, e ci scavemmio le barchette; e lloco a lle vaschi, ci facemmo le guere…




Marcello de Santis

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