Bastava poco a noi ragazzi per essere felici, o contenti; meglio dire contenti, ché la felicità è qualcosa di più grande; ed eravamo contenti con poco, perché in effetti c’era poco, quasi niente: un manico di scopa, ‘mpezzu d’elasticu, una fetta di pane asciutto o una fetta de pa’ coll’ogghiu, se ci stea, mutandine canottiera.
E qualche volta, un paio di sandali ricavati da scarpe vecchie rovinate in punta, punta che veniva tagliata dalle nostre madri, per dare sfogo a lli dituni cresciuti troppu sinno’ ci faceanu male; è così che la nostra vita andava verso i domani; e correva molto lentamente come ho già detto; certo, un giorno saremmo diventati grandi, ma come era lento a venire, il futuro…
E dàgli ad inventare, allora, in questa lunga inavvertibile attesa. Fare la briglia era un’altra arte che avevamo imparato, ed in fretta; non chiedetemi da chi e come; l’imparammo e basta; correvamo a prendere ‘na canna d’india (difficile a trovarsi) o una canna de fiume; le trovavamo salendo il viottolo sterrato che era alle spalle delle ultime e sole case in fondo la prato, dove oggi c’è la salita che porta dall’empolitana al campo ripoli.
Ai lati del viottolo c’erano vigne sulla destra, e alberi sulla sinistra, alberi di gelsi, di acacia; e fratte tanto fitte che dovevamo piegarci per passarci sotto; e tanto verde (ci andavamo a caccia di lucertole, de cantacecule, de lazzare che bazzicheanu lo sambucu…) E bisognava stare attenti a non restare impigliati tra le spine degli arbusti e dei rovi di more, a non strapparsi le canottiere, ché poi mamma ciaregghiempea de cucchiarate… corènnoci appressu tra qua’ biastimu e qua’ ammazzatura.
Press’a poco dove oggi c’è la strada sopra a via cinque giornate, c’eran una stradina tutta all’ombra, fra vigne e alberi da frutta, che in una cinquantina di metri arrivava a una specie di fattoria, dove le mamme ci mandavano, quando c’era qualche lira, a prendere fresco latte di mucca o di capra; e in attesa raccoglievamo i gelsi caduti dal grande albero che ci copriva il sole. Su quella carrata prendevamo le canne, che ci servivano da lance, o per farne spade, o per preparare lu cannille pe’ la briglia.
Pulita la canna, se ne tagliava un segmento, e su un’estremità, col coltello se ne facevano delle tacche, alternate, fino a formare una torre merlata. Dentro a llu cannille e dalla parte dei merli, s’introduceva e si faceva calare per un palmo circa il filo di lana rubato alla mamma in qualche modo, e facendo ruotare il filo intorno ai merli.
Alternativamente, uno si e uno no; poi si ripassava sugli stessi, imbrigliandolo, formando così una briglia che usciva crescendo dal basso, allungandosi lentamente giro dopo giro; il manufatto, scendendo, tirato da noi da sotto, ad ogni ammagliatura, - è difficile spiegare la cosa con un’altra parola - era una vera e propria opera d’arte, che cercavamo di render più bella di quella degli altri,
usando, quando potevamo, lane di colori e di spessore diversi; più spesso era il filo, più spessa veniva la briglia, ciò che suscitava l’ammirazione e l’invidia dei compagni di gioco. Non ricordo le ore passate, seduti sui muretti o sulla pietra di zi’ antonina lisciata e pulita dagli anni di uso (ancora oggi, se passate di là, la potete vedere nel piccolo spiazzo a fianco all’edificio dove hanno messo l’ufficio postale dei pacchi.
Ah, se potesse parlare quella pietra! A noi ragazzi si presentava allora molto grande, tanto che potevamo sederci sopra in tre o quattro; in effetti, a vederla oggi, non basterebbe a due persone adulte. Se potesse parlare! Quante cose racconterebbe, come una vecchia nonna! E’ là che passavamo molto del nostro tempo a sbrigliare, uno accanto all’altro, vantando ognuno la propria arte.
L’uso più ricorrente era quello di vera e propria briglia per cavalli; una volta terminata, ognuno sceglieva un compagno che faceva il cavallo, ci si passava la briglia sul collo, poi sotto le ascelle, ed eravamo pronti a scorrazzare per il prato, facendo li caubboi e l’indiani, con in mano un’immaginaria pistola o un pugnale o una spada ricavati dal soli-to manico di scopa, da un pezzo di compensato, da una canna…
...certe vote mamma cocea li facioli (allora ‘nci steanu ancora quelli belli che cotti drent’a llu barattulu…); e faceanu blo blo blo blo… e quanno ci ghhiamea pe’ i’ su, stemmio a bubbulà, mai contenti, …e no’ lla smettemmo ppiù. Esso perché ci dicea che paremmio ‘na pila de facioli…
Marcello de Santis
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