A casa, la minestra, 'mpezzu de pa' asciuttu, e subito giù al prato, a giocare. C'erano già gli altri, se non si andavano a chiamare (e tutte le madri a brontolare.). S'era magari verso la fine di maggio, la scuola stava per finire e le giornate s'erano allungate (non c'era ancora l'ora legale) e dovevamo approfittare di "più giorno" possibile. Il barcesare ci forniva i mezzi necessari per uno dei giochi che facevamo di più: il giro d'italia; partecipavamo tutti, più eravamo meglio era; più corridori, più onore al vin-citore.
Con le mani costruivamo per terra una strada tra i bordi di pozzolana che faceva da circuito, da giro, appunto. E lungo il percorso, ci mettevamo delle montagne, a volte delle buche per rendere più difficile il tracciato; meglio poi se le mettevamo nelle curve. Si correva con i tappetti di birra, di aranciata, del chinottoneri. Ognuno cercava di procurarsi il tappetto più bello (il più bello era il più strano, il più raro).
Ognuno si prendeva il nome di un corridore: io so' coppi..., no, coppi so' io; no, lo so' dittu prima io..., no, prima io. va bbe', allora io so' koblet, te facco vede'., e così via. C'erano tutti, bartali, robic testina di vetro, bobet, kubler. Si zipicchiavano i tappetti con più o meno forza a seconda se in rettilineo o in curva, oppure di montarozzi-montagne; si zipicchiava una volta per uno, cosicché si assisteva a sorpassi, a scontri, a uscite di pista. Spesso si litigava, se il tappetto si fermava in posizione dubbia, è fori!..., ma che sta' a ddi', è dentro. no, sta fori. t'à da remétte derétu, ando' sti prima. E non finiva più, perché i perdenti speravano di avere subito la rivincita; ma le mamme cominciavano a chiamarci. si faceva sera, e non ce ne accorgevamo.
Marcello de Santis
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